Ci siamo trasferiti in Germania, a Berlino, nell’agosto del 2015, e la seconda settimana di settembre nostro figlio Giacomo, con sindrome di Down, ha iniziato a frequentare la prima elementare in una Grundschule Europea Italotedesca.
Era il primo bambino con disabilità intellettiva che veniva accolto in quella scuola. Sapevamo che approdare in un posto dove l’inclusione era a tal punto sconosciuta sarebbe stato problematico. Ci abbiamo provato. Ci siamo detti “forse ‘loro’ quando fanno una cosa la fanno bene”, affidandoci ai tipici pregiudizi esterofili (e germanofili in particolare) di cui molti emigranti come noi sono vittima.
Niente di più falso. A ottobre abbiamo scoperto che i bambini con difficoltà che erano stati accettati per la prima volta nella scuola erano tre, e tutti e tre erano stati messi nella stessa classe. I giorni successivi abbiamo realizzato che ‘casualmente’ erano anche allo stesso banco.
È stato un anno, dal punto di vista di noi genitori, duro, con grandi momenti di tensione e successivi confronto con la scuola. Ogni tanto, per caso, si veniva a sapere che alcune attività venivano precluse a priori, senza dare spiegazione né informare nessuno. Ma la sensazione peggiore era quella che non credessero in Giacomo, nelle sue potenzialità di apprendimento, che a noi appaiono enormi. C’era negli sguardi un sottotesto continuo che diceva ‘dovete essere contenti che ve lo teniamo qui’. A fare cosa non importava. Una foto di classe emblematica con tutti i bambini da una parte, uno spazio, e Giacomo, con un muso lungo, dall’altra, per mano a un’educatrice, ci ha trafitto il cuore. A Natale eravamo già sul punto di tornare in Italia. I bambini però sembravano aver appena ingranato. Un po’ per loro, un po’ perché ogni tanto si riaccendevano briciole di speranza, siamo rimasti. Abbiamo preteso di entrare nel gruppo di lavoro sull’inclusione, in cui si erano guardati bene di coinvolgerci. Abbiamo proposto di fare insieme una specie di decalogo sui principi dell’inclusione scolastica. Ci guardavano sbigottiti, assolutamente non avvezzi alla collaborazione con i genitori sulle regole, resistevano a denti stretti a quella che consideravano un’invasione di campo. Ma tanti amici ci incitavano ad andare avanti. C’è la possibilità di cambiare tanto, dicevano. Poi un’altra doccia fredda. Si viene a sapere in modo rocambolesco, tre settimane dopo i fatti, che un educatore in più occasioni ha usato atteggiamenti violenti, fisici e verbali, con i tre bambini con difficoltà. Le tre famiglie si dirigono dal dirigente scolastico sbigottite. Due giorni prima erano sedute allo stesso tavolo di lavoro con lo stesso dirigente, a conoscenza dei fatti, e non era stato loro detto nulla. La risposta del dirigente non ha ammesso repliche: ‘dovevamo tutelare il nostro dipendente’. Per non risparmiarci nulla fino alla fine, e aiutarci a decidere senza remore, allo spettacolo di fine anno di circo hanno lasciato Giacomo senza alcun ruolo. Non che lo abbiano tenuto fuori, cosa che, visto come è andata poi, avrei quasi ritenuta più rispettosa. No. Lo hanno fatto partecipare senza aver previsto nulla per lui che sembrava un topino spaesato finito sulla scena per sbaglio (abbiamo poi scoperto che era sempre stato tenuto lontano dagli allenamenti di circo, portato ad accarezzare gli animali). Cala il sipario. i suoi compagni escono. Nessuno si degna nemmeno di rivolgergli la parola per dirgli di uscire.
Tutto questo ci ha tolto parecchie energie e entusiasmo rispetto al nostro approdo in Germania, ci ha posto di fronte a scelte difficili e dolorose, ci ha costretto a rimescolare le carte e a ristabilire le priorità.
Non sono quindi, forse, la persona adatta, in questo momento, a parlare di scuola, inclusione e confronto tra paesi. No. Da un certo punto di vista non lo sono affatto. Dall’altro credo di avere maturato un certa capacità di dialogo con questo mondo così diverso dal nostro (eh sì che ci troviamo nella stessa Europa), e soprattutto ho avuto tempo e modo per riflettere. Gli eventi hanno da un lato trascinato tempeste di emozioni, dall’altro, nella famosa calma dopo la tempesta, mi hanno dato la lucidità per ripensare a quali siano i reali cavilli dove si inceppa l’ingranaggio. Perché è chiaro che non sono le persone e la loro buona volontà a fare la differenza, a livello macro (di paese) non si può certo affermare che ci siano persone o popoli migliori o peggiori, ma sistemi in grado di tutelarti meglio, quello sì.
In questi ultimi anni in Germania, e nella regione di Berlino in testa, si stanno attuando alcuni sforzi per avviare l’inclusione scolastica dei bambini diversamente abili. Ad oggi il percorso scolastico più diffuso dei bambini che hanno delle difficoltà è quello delle cosiddette Sonderschule. L’idea di base della scuola speciale è che i bambini in difficoltà abbiano bisogno di strutture, personale, e percorsi specializzati. Nel 2007 circa 430.000 ragazzi con disabilità fisiche e/o intellettive, pari a circa il 4,5% di tutti gli studenti della Germania, frequentavano ancora una Sonderschule. I promotori dell’inclusione in Germania citano diversi studi che mostrano che i bambini con disabilità, che vengono inseriti in un percorso scolastico regolare, danno in realtà risultati migliori. Altri studi evidenziano che anche i bambini senza disabilità che abbiano avuto l’opportunità di frequentare una scuola inclusiva danno risultati migliori rispetto ai loro coetanei che non hanno avuto la stessa opportunità.
Utilizzare il rendimento scolastico come unico parametro per valutare quale sia il percorso scolastico migliore è forse un errore di base, figlio di una visione miope su quali siano i compiti della scuola. Essa è il principale luogo di vita dei bambini e scegliere di inserire alcuni di loro in un contesto protetto, significa decidere a priori di incarcerarli in un mondo snaturato, fatto ad uso e consumo delle sole persone con disabilità. Credo che una riflessione più ampia sull’inclusione, che esuli dal solo vantaggio in termini di efficienza ed efficacia, ma che parta da domande più radicali, e di senso, sia ancora da avviare in Germania.
In Italia la legge che prevede che i bambini diversamente abili possano andare a scuola assieme a tutti gli altri risale al 1977 (L. 517/77). Come spesso accade (in Italia e forse anche altrove), la legge fu fatta, e ai mezzi per realizzarla ci si pensò in un secondo momento. Essa fu però fortemente voluta, sull’onda dello stesso movimento culturale che portò alla stesura della legge Basaglia (L. 180/78 che decretò la chiusura dei manicomi) con cui si avviò una generale messa in discussione, sia in campo sanitario, sia in campo pedagogico, del concetto di normalità. La ripercussione di questo movimento culturale, a livello legislativo, fu dunque l’abolizione della restrizione delle libertà e dei diritti dei ‘diversi’. Ad oggi tutte le scuole pubbliche, relative alle fasce di età della scuola dell’obbligo, sono tenute ad accogliere ragazzi con disabilità fisica o intellettiva e a garantirgli un percorso di studi che sviluppi a pieno le sue potenzialità. Un obiettivo ambizioso, che stenta tuttora a realizzarsi a pieno nella sua forma più alta, ma che conta ad oggi migliaia di buone prassi e milioni di ragazzi che hanno avuto la possibilità di conoscersi. Io, trentottenne, sono una di questi. Mi innamorai letteralmente di un bambino con sindrome di Down con cui frequentai le elementari e le medie, e che è tuttora uno dei più cari amici che ho. Quando rimasi in cinta decisi di non fare indagini prenatali proprio perché avevo avuto la possibilità di conoscere. Il mio primogenito, con sindrome di Down, non è figlio di una scelta a sfondo religioso (che spesso purtroppo mi viene attribuita) ma della cultura inclusiva che l’Italia, seppure con pochi mezzi e non sempre al meglio, ha avuto il coraggio di iniziare a costruire quarant’anni fa.
In Germania, ad eccezione di alcune singole scuole ‘illuminate’ che sperimentano l’inclusione da molti anni, (come la Fläming-Grundschule, che è scuola inclusiva da quarant’anni) si sta iniziando adesso il processo di inclusione dei bambini diversamente abili nelle Grundschule. Si è all’inizio del percorso quindi, come lo si era quarant’anni fa in Italia, con tutti i problemi che l’avvio di un processo di questo tipo porta con sé. Fin qui tutto bene, si potrebbero perfino avere buone speranze per il futuro. Ma come ci si è arrivati? C’è stato un movimento culturale sviluppatosi da un qualche tipo di indignazione sociale che, facendo pressione dal basso, ha fatto sì che la Germania arrivasse a legiferare in questo senso? Sembra di no. Nel 2009 una Convenzione ONU sui diritti dei disabili ha imposto agli stati aderenti di dare la possibilità a tutti i bambini di iscriversi nella loro scuola di competenza. La Germania si è dovuta muovere di conseguenza. Sennonché la forte autonomia delle regioni e dei singoli istituti scolastici ha ostacolato l’avvio di un drastico cambio di rotta così come auspicato dall’ONU. Ogni scuola può scegliere o meno di investire risorse per formare personale specializzato, cosa che, dal punto di vista del bambino con disabilità, significa poter essere rifiutati da alcune scuole, ponendo anche il problema giuridico di una discriminazione in termini di accessibilità al diritto allo studio.
Da dove partire allora? Le linee guida del Brandeburgo sull’inclusione scolastica (scaricabili da qui http://bildungsserver.berlin-brandenburg.de/fileadmin/bbb/schule/inklusion/2013) sono assolutamente avanzate e basterebbe obbligare tutti gli istituti scolastici ad attenercisi per iniziare davvero a costruire una cultura inclusiva ad ampio spettro che si ripercuoterebbe, negli anni, anche sulla società. L’impressione quindi è che lo spazio per il cambiamento ormai ci sia. Quello che manca è forse il senso di urgenza della società, una reale indignazione, un dibattito vivace, e la volontà politica di fare davvero questo passo in maniera irreversibile, senza mantenere i piedi in due scarpe, avviando un processo culturale che, attraverso la conoscenza reciproca, è destinato a far crescere la collettività.
(Beatrice Sbriscia, genitore)
Il tuo racconto fa impressione.. ben scritto.. si capisce che e’ frutto di un processo intenso. Mi spiace talmente che la Germania non sia stata in grado di accogliervi come vi meritavate. Vi ricordero. Speravo tanto di conoscervi meglio ma non c’e stato tempo. Un abbraccio forte dalla mama di Giacomo (l’altro) e Cristina (Cuccioli).
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