Recentemente hanno fatto molto discutere gli episodi di alcuni genitori che non hanno mandato a scuola i loro figli a causa della presenza in classe di un bambino autistico e di uno iperattivo.
Ho letto diverse considerazioni, traboccanti della solita retorica e di atteggiamenti di pietismo che spesso queste storie suscitano.
Proviamo, però, per un attimo a prendere una sana distanza da quello che è accaduto e calarci nei “panni degli altri”.
Immaginiamo di essere noi quei genitori che non riescono a capire – perché nessuno glielo ha insegnato – cosa succede a quel bambino iperattivo e perché si comporta in quel modo.
Immaginiamo ancora di essere quei bambini a cui nessuno ha insegnato il valore della diversità.
Come ci comporteremmo? Come reagiremmo?
Storie come queste e come tante altre che quotidianamente leggiamo o vediamo, dovrebbero portarci ad una più ampia riflessione sulla legge dell’integrazione scolastica.
L’Italia, a differenza degli altri paesi europei, può vantare un’esperienza di ormai circa 40 anni di integrazione scolastica degli alunni con disabilità nella scuola ordinaria, a partire dalla prima legge datata 1971, fino ad arrivare a quella principale, la Legge Quadro 104 del 1992.
E allora perché succedono fatti di questo genere?
La stiamo davvero realizzando o forse è arrivato il momento di rimettere in discussione queste leggi e di aprire un serio dibattito?
Due sono le riflessioni su cui è doveroso soffermarci.
La prima riguarda il concetto di integrazione. Includere non significa fornire un assistente, un insegnante di sostegno specializzato. Il primo passo per realizzare l’inclusione passa attraverso la conoscenza.
Il problema dell’integrazione in Italia e nel mondo, prima ancora che nella scuola, deve avvenire nella società o meglio dovrebbe essere il risultato di un forte connubio tra la scuola e la società. Dobbiamo uscire dal guscio ed iniziare, attraverso lo scambio e la collaborazione, ad educare non solo chi con il disabile ha a che fare (genitore, insegnante di sostegno ed educatori) ma l’intera società.
Molto probabilmente se quei genitori fossero stati “contaminati” da una cultura della diversità, avrebbero superato i pregiudizi e questo, di conseguenza, avrebbe aiutato gli stessi figli a rimuovere i timori nei confronti del loro compagno. E forse avrebbero trovato soluzioni assieme alla scuola e alla famiglia del disabile, anziché decidere di scioperare per un giorno.
La seconda riflessione riguarda l’inserimento nella scuola di bambini con patologie molto gravi.
All’inizio degli anni ’90 la legge 104 fece sì che quello che era il mondo della sofferenza e dell’assistenza, venisse trasformato in un mondo del diritto al sapere, al comunicare, alla salute, al vivere; la scuola, il lavoro, la salute, il tempo libero, la società, diventarono così, campi in cui anche i disabili potevano godere delle stesse opportunità degli altri.
Ma la domanda è: la scuola ha le strutture e le risorse adeguate che consentono l’applicazione della legge? Spesso e in diverse occasioni assistiamo a scene di ragazzi con gravi patologie comportamentali, e altro, che non riusciamo a gestire, mettendo spesso a dura prova chi si occupa di loro. L’unico rifugio sono le anguste “aule per disabili” e, se siamo fortunati, colorate e con qualche disegno attaccato alla parete.
Mi piacerebbe credere che forse questi ragazzi avrebbero bisogno, prima ancora dell’integrazione, di strutture specializzate, con personale altamente qualificato, di palestre, di laboratori in cui speriementare le proprie abilità. Un luogo in cui star meglio e di conseguenza condividere la ricchezza della loro diversità in modo più sereno nella società e nella scuola, con i loro coetanei.
Ragazzi che abbiano la possibilità di frequentare la scuola solo in alcuni momenti, in spazi attrezzati, ed interagendo con gli altri alunni con modalità organizzate.
E questo non vuol dire tornare indietro, ma scoprire l’altra faccia della legge, una legge coraggiosa, piena di ideali, ma completamente inattuabile per una grande percentuale di disabili.
Ancora una volta potremmo fare lo sforzo di metterci nei “panni dell’altro”, ma questa volta del disabile che ci guarda perplesso perché non riesce a capire l’altra diversità, quella dei “normodotati” che quotidianamente si affannano a rendergli il mondo migliore.
Franca Guerra
La mancata conoscenza della disabilità di un compagno di classe “diverso” è uno dei motivi principali della mancata integrazione.
Lo hanno detto in molti modi e molte volte i ragazzi, studenti delle superiori, che l’ anno scorso hanno partecipato ai laboratori dedicati al tema “disabilità e integrazione” organizzati da FORUM Solidarietà.
– Se nessuno mi spiega e mi racconta in cosa consiste la “diversa abilità” del mio compagno di classe e non mi vengono date le “istruzioni per l’uso” non so come fare ad approcciarlo ed a tentare di relazionarmi con lui.-
I ragazzi hanno espresso l’esigenza di sapere e di conoscere i loro compagni “strani”; che potrebbero essere presentati e raccontati nei primi giorni di scuola dai genitori, dai fratelli, dalle persone vicine nel quotidiano che in questo modo disvelerebbero il “mistero” della diversità tanto da renderla comprensibile e ,come tale, più facile e naturale.
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